Il femore è l’osso più lungo, voluminoso e resistente dello scheletro umano e su di esso si inseriscono numerosi muscoli fondamentali per il movimento degli arti inferiori. Articolandosi nella sua estremità prossimale con l’osso dell’anca, dà origine all’omonima articolazione (meglio conosciuta come coxofemorale), mentre la sua epifisi distale si articola con la rotula e la tibia dando origine all’articolazione del ginocchio.
Il trattamento di una frattura del femore richiede quasi sempre l’intervento di sintesi chirurgica; solo in presenza di controindicazioni a questo approccio può essere suggerito il trattamento conservativo. Nella stragrande maggioranza dei casi la chirurgia è comunque fondamentale per la sopravvivenza e la ripresa funzionale del paziente. Il tipo di intervento scelto dipende, in ogni caso, dal tipo di frattura.
Nell’anziano la frattura del femore si localizza tipicamente all’estremità superiore (testa o collo del femore), limitando fortemente la mobilità dell’arto, peraltro già compromessa dall’età avanzata. Per questo motivo la frattura del femore rappresenta un evento gravissimo; basti pensare che circa il 15-20% dei pazienti con frattura dell’estremità prossimale muore entro un anno dall’evento traumatico. I dati sono ancor più allarmanti se si considera che circa il 50% dei pazienti perde parzialmente o totalmente l’autosufficienza dopo aver subìto questo tipo di lesione.
Circa il 75% delle fratture del femore colpisce le donne, per le quali il rischio di morire in seguito alle complicanze è uguale a quello causato da un tumore al seno.
L’incidenza della patologia purtroppo è in aumento e si prevede che per il 2030 in Europa vi saranno circa 750.000 nuovi casi all’anno.
Cause
Negli anziani le fratture del femore sono spesso causate da una caduta o da un trauma apparentemente insignificante: osteoporosi, tumori o infezioni possono infatti minare la solidità dell’osso rendendolo più suscettibile alle fratture.
I principali fattori di rischio sono quindi legati alle cadute ed all’osteoporosi.
Quando la frattura del femore è scomposta, cioè quando i due capi ossei perdono il loro naturale allineamento, si accompagna a dolore intenso (che può irradiarsi all’inguine) e all’impossibilità di muovere la coscia. L’arto interessato si presenta addotto (avvicinato all’altro), extraruotato (il piede tende a toccare il terreno con il suo margine esterno) e leggermente più corto di quello sano. Al contrario, quando la frattura è composta, il paziente può accusare un dolore di non grave entità in sede inguinale e può anche riuscire a camminare.
La diagnosi della frattura è affidata all’osservazione dei sopracitati segni clinici, che verranno poi confermati dall’esame radiografico. Questo, eseguito in diverse proiezioni, permette infatti di individuare facilmente le fratture scomposte, mentre per quelle ingranate è fondamentale una lettura più attenta dei radiogrammi.
La terapia di queste fratture è sostanzialmente di tipo chirurgico, poiché in sua assenza la malattia avrebbe un’elevata probabilità di aggravarsi con complicazioni localizzate alla sede della frattura (difficoltosa saldatura dei capi fratturati; necrosi della testa del femore), oppure generalizzate, dovute soprattutto al lungo periodo di immobilità (piaghe da decubito, infezioni polmonari e vescicali, infezioni delle vene degli arti inferiori).
L’ intervento chirurgico mira a ottenere una ripresa funzionale precoce. La tecnica adottata dipende dal tipo di frattura e dall’età del paziente. Generalmente, se la frattura è localizzata in sede mediale, è scomposta e il paziente ha più di 60 anni, si procede con l’applicazione di una protesi articolare totale o della sola estremità femorale distale (endoprotesi, suggerita per i pazienti con più di 70 anni di età).
Se il paziente è più giovane, oppure quando la frattura è laterale, si ricorre all’osteosintesi, cioè a un intervento chirurgico mirato all’unione dei frammenti ossei con mezzi metallici,
quali chiodi e placche. Dopo l’intervento è fondamentale adottare adeguati protocolli di riabilitazione.
Grazie alla maggiore salute ossea, la frattura del femore nei giovani e negli sportivi è un evento piuttosto raro. Nella maggior parte dei casi è la conseguenza di un evento traumatico violento (incidente stradale); più raramente può insorgere per traumi banali (spesso in questi casi la massa e l’elasticità ossea sono minate da malattie congenite, malnutrizione o anoressia) o come conseguenza di carichi prolungati e ripetuti. Questo tipo di lesione è quindi più comune tra gli atleti di fondo, specie se di sesso femminile e colpiti dalla cosiddetta triade (una condizione caratterizzata da osteoporosi, amenorrea e disordini alimentari).
Anche in questi casi la frattura del femore viene generalmente trattata con l’inserimento chirurgico di viti e placche, in modo da favorire la guarigione e prevenire le complicanze.
Nelle fratture tipo Garden I e II il trattamento è per l’appunto la sintesi ovvero la riparazione mediante tre viti, solitamente percutanee, sotto guida fluoroscopica
Come possiamo vedere le viti vengono posizionate tradizionalmente a “triangolo rovesciato”.
Nelle fratture con maggior grado di scomposizione di III e IV grado, il trattamento avviene mediante il posizionamento di una protesi d’anca. Anche l’età generalmente ha un suo cut-off: sotto i 65 anni tendenzialmente si preferisce la ricostruzione con tre viti, nel paziente over 65 si preferisce il posizionamento di una protesi.
Perché questa differenza? La risposta sta nel fatto che la possibilità di una guarigione effettiva è maggiore al di sotto di una certa età. Oltre i 65 anni, invece, c’è un rischio maggiore di necrosi della testa del femore e di conseguenza si cerca di garantire al paziente una soluzione più duratura costituita, infatti, dalla protesi
Nei pazienti al di sotto degli 80 anni si utilizza un’artoprotesi, ovvero una protesi totale, in cui vengono quindi sostituiti sia la componente femorale che quella acetabolare (sul bacino), esattamente uguale a quella che viene utilizzata nel trattamento dell’artrosi.
Nei pazienti over 80 si preferisce un’endoprotesi, ovvero una protesi parziale, in cui si sostituisce solamente la componente femorale che si articola mediante una testa “biarticolare”, cioè una testa a doppio snodo che ne garantisce una funzionalità seppure ridotta, ma con un intervento meno invasivo e di minor durata e un uguale ritorno al carico nella giornata successiva all’intervento.
Presso l’Ospedale di Peschiera prediligiamo al pari della chirurgia protesica cosiddetta “elettiva” (ovvero programmata per problemi cronici e non traumatici) anche l’approccio anteriore diretto mini invasivo, che garantisce un recupero più precoce, minori perdite ematiche e un ridotto danno muscolare. Questi fattori, soprattutto nel paziente anziano, garantiscono una maggiore percentuale di sopravvivenza a medio/lungo termine, specie se l’intervento è eseguito entro 48 ore dal trauma.
Dott. Giacomo Trivellin